Ascoltare Martha Argerich fare il Primo Concerto di Beethoven per pianoforte e orchestra è un po’ come dare una mano di coppale a tutte le interpretazioni ascoltate sinora. Lei non esegue, costruisce. Il suono ha una forma, si colloca nello spazio con naturalezza e, nell’insieme, crea strutture che si espandono proporzionalmente ai margini di sensibilità dell’ascoltatore. In quattro parole, Lei È il pianoforte.

Lo è quando chiamata per la prova generale chiede di restare un attimo in più a studiare, lo è quando si congratula con il teatro per l’ottimo pianoforte verticale in camerino, lo è quando entra in scena quasi scusandosi, lo è quando nei momenti più sentiti stringe la bocca, lo è quando cerca l’orchestra con lo sguardo mentre esegue, lo è quando osserva i musicisti nelle pause, lo è quando prima di un forte improvviso blocca il corpo per recuperare energia e scaricarla sulle mani in un istante, lo è quando sull’ultimo accordo si alza direttamente in piedi scatenando un putiferio di applausi e quel fenomeno, raro, rarissimo, di un pubblico che non vede l’ora di battere mani e piedi, lo è quando si mette la mano sul cuore per ringraziare del boato che non ne vuole sapere di perdere forza ed intensità.
La cena dopo il concerto la vede mattatrice: racconta senza mai alzare la voce aneddoti, barzellette, esagera con gli gnocchi alla sorrentina (a Brescia, sì…gli gnocchi alla sorrentina a Brescia, ottimi). Al tavolo non ci sono seduti proprio gli ultimi venuti, a cominciare da Gabor Takàcs-Nagy che ha diretto il concerto, un musicista scintillante, luccicante. Lei è number one comunque, senza forzature: lo è e basta, così ci nasci.
Andando verso Brescia ero stanca con la testa, molto. Stare dietro le quinte della musica ti costringe spessissimo ad avere a che fare con telefonate, mail, lettere, imprevisti, ritardi, incomprensioni, chiarimenti, paradossi, è una vita professionale in bianco e nero di cui pochi conoscono, ma soprattutto comprendono, la difficoltà a mantenere vivi ed in equilibrio i colori dell’energia e dell’entusiasmo.
Ritornando invece a Roma adesso, ho la sensazione di quando ti svegli al buio, con le persiane chiuse: ti alzi, spalanchi le finestre ed entra il cielo dappertutto.